Amoressia: intervista di Giorgia Leuratti per Strade OFF
Giorgia Leuratti, una delle partecipanti al lab Strade OFF, condotto da Doriana Legge nell’ambito della rassegna di teatro Strade 2017, ha incontrato Federico Cervigni e Donato Paternoster, autore e attore di Amoressia, spettacolo messo in scena nella stagione del Nobelperlapace. Buona lettura!
Il piccolo bar di Rosy in zona Pigneto (Roma) è il luogo dell’incontro con Federico Cervigni e Donato Paternoster; rispettivamente autore e attore dell’opera teatrale Amoressia, diretta da Terry Paternoster, che ha rappresentato l’evento di chiusura della rassegna Strade 2017 al teatro Nobelperlapace di S. Demetrio – L’Aquila.
Una rappresentazione che oscilla tra poesia e brutalità, che ci sorprende, ci interroga, ci spinge ad addentrarci in un abisso. Quello dell’inedito, indispensabile, enigmatico, rapporto con se stessi…
Donato: Quando abbiamo iniziato questo progetto lavoravamo in uno spazio a Casalbertone. Avevamo creato questo teatro che aveva preso il nome di “Teatro B-Pop”, dove una o due volte al mese davamo vita ad una sorta di “Jam session teatrali” tutte accomunate da un filo rosso ma comprendenti anche testi inediti. Proprio fra questi testi, spesso scritti da Federico, cominciarono a prendere forma i primi spunti di questo progetto. Questo ha rappresentato un primo input poi elaborato e ragionato instancabilmente fino a giungere alla formulazione di un vero e proprio testo. Quello di Amoressia.
Amoressia che è una storia vera… tranne che nei punti in cui non lo è…
D: Qual è il senso, ti chiederai. Arriverò alla risposta tramite un racconto: già in quella fase ancora embrionale del progetto, sono nati dei blocchi non solo “di significato” ma anche, e soprattutto, “di linguaggio”. Esisteva dunque questa sorta di contenitore che in effetti, non ha mai visto la luce; il suo titolo era “ Sapiens?”. Si trattava appunto di una domanda posta da noi a noi: siamo davvero sapiens?
Come soggetti conoscitivi del mondo, o di se stessi?
Federico: Come relazione col mondo, soprattutto. Partendo infatti dal presupposto che noi, in quanto genere umano, ci stiamo forse dirigendo verso un’inesorabile distruzione, la domanda sorgeva spontanea: in nome di tutto questo, siamo realmente dei sapiens? Una domanda come critica. Una critica che è stata punto d’inizio per lo sviluppo di una serie di monologhi legati da un unico filo conduttore nonché da quella stessa sperimentazione del linguaggio che si può riscontrare in Amoressia.
Tra le varie narrazioni che, come flussi immaginifici, si dispiegano all’interno del soliloquio, particolarmente incisiva è quella dell’acqua. Un’acqua che non ragiona, ma riflette. Nella sua molteplicità di significati, quale universo semantico vuole evocare?
F: Cosi come altri elementi che popolano la rappresentazione, anche l’immagine del lago è puramente inventata. Si tratta però di un’immagine sempre presente nella mia mente. Quando si iniziano ad accastellare le varie evocazioni, le si circonda di particolari fino a trasformarle in simboli. L’acqua è quindi un simbolo. Il lago si svela all’improvviso come luogo di morte. Ed io solo allora lo scopro.
Una scoperta che avviene all’interno del tuo stesso immaginario.
F: Senza dubbio, si dice, l’autore è il primo spettatore.
D: Volendo poi, si può associare l’amoressia, questa patologia, al mito di Narciso. L’amoressia come autocelebrazione e autodistruzione di se stessi. L’acqua dunque come principio di creazione. Come specchio. Uno specchio verso il quale per tutto il tempo il personaggio rivolge il suo sguardo.
F: “L’acqua che da morte e che da vita” , dice il fratello. L’acqua del lago come ricordo di morte. L’acqua del liquido amniotico del suo bambino, come fulcro di vita. Concetti che vanno a confluire, a sovrapporsi.
Quell’acqua che è anche anima. Un’anima che, come afferma il protagonista, sgocciola dagli occhi. Ma anche la scenografia forse, costituita da un eloquente gioco di ombre va a costituire un simbolo, o forse addirittura ad imporsi come personaggio che riflette momenti di consapevolezza, di incoscienza, di reminiscenza. Come è stata curata la componente scenografica?
D: Fondamentalmente è stata una scrittura scenica, nel senso che man mano che si andava avanti con il lavoro, si aggiungevano dettagli, particolari, oggetti. Nasce da un lavoro di scrittura, di sperimentazione, di intimità anche con i posti in cui ci trovavamo a provare.
Quella stessa intimità presente trasversalmente sulla scena…
D: Esatto. La stessa idea del bagno evoca questa intimità e rappresenta forse anche la famosa” livella” di Totò secondo cui possiamo essere tutti diversi ma in bagno siamo tutti uguali.
F: Ma il bagno è nella scena anche il “luogo del subconscio”. Non ci troviamo infatti in un posto concreto, reale, ma all’interno di uno spazio mentale che stilizziamo con un bagno. Il subconscio è infatti quel luogo oscuro, nascosto della mente dove vai a scaricare le cose. Tirando la catena, il personaggio scarica dunque prova a rimuovere tutto ciò che rifiuta ma che poi, tante volte, torna a galla.
Un luogo della mente avente però un perimetro ben preciso, creato dal protagonista attraverso la predisposizione di pillole sul pavimento.
D: Le pillole, quelle stesse pillole androgeno-ormonali usate dal personaggio, vengono inizialmente collocate con l’intenzione ,da parte del personaggio, di circoscrivere il suo mondo. Una storia che forse, quotidianamente.
Il tentativo di confinarsi. Di confinare un flusso di coscienza di per se infinito…
F: Il perimetro è infatti un concetto importante dl momento che il protagonista ci si rinchiude dentro come è rinchiuso in se stesso. Nella propria autoreferenzialità. Ciò gli permette di stabilire dei limiti, da lui creati e dai quali non esce. Altra gabbia è la famosa quarta parete (delimitata dallo specchio) dalla quale non esce. È un limite invalicabile. Una gabbia. L’esasperazione di questo confine ci serviva per dare maggior rilievo a quel momento, l’unico in tutto lo spettacolo in cui il limite si interrompe. Non c’è.
Nel buio. Nella luce che penetra il buio.
F: Nel buio. Dove per la prima volta oltrepassa il limite dello specchio. Lo scavalca e si rende conto di avere un mondo davanti.
Proprio perché l’unico, forse ancor più pregno di significato. Resta da scoprire cosa tu, Donato, provassi nel guardare una miriade di occhi puntati su di te.
F: Anch’io glielo chiedo sempre…
Già, perché effettivamente il pubblico non ti vede, però ti guarda. Scruta quella luce. All’improvviso ha la possibilità di ricambiare il tuo sguardo.
D: Infatti ne parlavamo… è sempre bello quel momento in cui concretamente. Praticamente. Si capisce l’autentica reazione del pubblico rispetto a tutto quello che è successo e che sta succedendo in quel momento.
F: In quel momento si inverte tutto. Si invertono i ruoli. Di solito è l’attore che ha la luce puntata su di se. Da li il passaggio è fondamentale: a partire da questo istante il personaggio rischia di aprirsi, rimane “ contaminato” dall’altro, ma si spaventa. E affascinato però si spaventa. Le stelle sono per lui inquietanti fameliche..
Un elemento perturbante rispetto al proprio universo interiore. Mi chiedevo poi, perdonate le mie associazioni del tutto inedite, quale fosse l’universo di senso che si diparte dalla donna. Una donna che oltre a rappresentare la metà del protagonista, ne è anche “ elemento ripudiato”.
D: Il protagonista la rifiuta drasticamente. Si sente ammorbato da “ volgare movenza femminile”. La giudica, la allontana e vorrebbe non vedersi in quelle sembianze.
F: Vorrei aggiungere… già nella storia la donna è bastonata. È ripudiata. Convinzione che viene assecondata, talvolta ingigantita dalle migliaia di credenze popolari e che porta a considerarla come madre ma anche come strega. Nel caso specifico il personaggio riceve già dall’infanzia insegnamenti distorti. Osserva ripetutamente le violenze subite da sua madre da parte del padre. Rielabora poi questa convinzione nelle parole: “… alle femmine due cose piacciono. Cazzi e cazzotti…”.
E lui da un lato ammira, da un lato si trova ad essere estraneo da questi rituali.
F: Assolutamente. Ha terrore di quella violenza ma non può non subirne il fascino. Li tiene presenti. Ciò, essendo inizialmente una donna, la conduce all’equazione: La donna fa schifo = io faccio schifo. Inizia dunque a rifiutare la sua parte femminile, fino a liberarsene.
E a questo punto mi torna in mente il sottotitolo dell’opera stessa: cosa siamo noi senza noi stessi?
F: Un’equazione che in questo frangente, non è rivolta unicamente al femminile ma a un personaggio in senso lato che si trova ad essere l’irrisolto per definizione. Un contenzioso per cui, non è lui contro il mondo ma lui contro di sé. Non può aggrapparsi a niente. E arriva in questo modo, tramite il paradosso linguistico del “ dialogo monologante”, arriva a un «io mi amo» ma anche ad un «io mi lascio». Dunque, se io mi lascio che rimane? Nulla. Di conseguenza, come posso io rinunciare a me stesso? Tutto ciò, come dicevi, è raccontato come fosse un dialogo di coppia, come se io ti stessi lasciando e tu mi dicessi: come faccio a vivere senza di te?
di Giorgia Leuratti