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120 chili di jazz: tragicomica fame d’amore

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foto Paolo Porto

Cosa si cela dietro la sagoma vibrante, lievemente sospinta dal ritmo irrefrenabile di malinconie segrete? Discende la scalinata, leggera, sognante, per poi raggiungere con la stessa fluidità dinamica, il palco illuminato. Una cravatta lilla. Uno sguardo vitreo che penetra la scena.
Ma quel suo lento incedere, dapprima soltanto accennato, poi sempre più rutilante, non nel palco ma dalla platea trova la sua sorgente.

Fin da subito l’attore recide ogni forma di estraneità con la folla. Col pubblico fremente. Un pubblico che, grazie a lui, sceglie di riversarsi nella miscela creativa di quella performance, ancora inedita.
E l’attore ci proietta irrimediabilmente nella storia. Nel luogo evocativo, dove il dramma è trasfigurato dall’ironia. La frustrazione assume il timbro profondo dell’onomatopea. Ci interpella. Ci chiama. Ci abbraccia. Ci attribuisce ruoli improvvisati addentrandosi senza remore tra le strette fila della piccola sala teatrale. Ci permette di contaminarci con ciò che dapprima non ci apparteneva.
“Non bisogna essere solenni”: queste le parole di César Brie, attore e drammaturgo argentino che al teatro Nobelperlapace ha portato in scena 120 chili jazz: né infatti il dramma, che a fiotti scomposti trapela dalla narrazione, né il vigore della vocalità che muta, che esplora incessante le più disparate tonalità timbriche, ci permette di inabissarci nel tragico.

Lo spettatore lo percepisce, può coglierne talvolta l’essenza ma ciò non gli impedisce di continuare a immergersi nel gioco, nell’indefinito alternarsi di realtà e finzione.

Ci addentriamo così nel rocambolesco racconto di Ciccio Mendez, nel suo disperato quanto tenace tentativo di abbandonare i panni dell’inettitudine ed essere finalmente guardato dagli occhi della donna amata, “fidanzata immaginaria”, la bella Samantha Mariano.

Così l’io personaggio, fino ad allora assuefatto nell’ostinata concezione del cibo come unica rassicurante illusione rispetto ai vuoti dell’esistenza, raggiunge un punto di svolta.

 

È fingendosi contrabbassista e attirando su di se una serie interminabile di eventi buffoneschi, che Ciccio riuscirà a farsi guardare con altri occhi.

Ma di fronte all’effettiva assenza di reale scenografia, quella di Brie, è l’unica luce che addolcisce la scena. La sua eleganza, l’unico decoro in un palco che appare irrimediabilmente nudo. Povero. Un palco che solo una sonorità vagamente latino americana, sapientemente miscelata con frequenti riferimenti geografici locali, riesce a rivestire, a ricolmare di fibrillante valore immaginifico.

Il risultato è un’evidente, sebbene velata, sospensione cronotopica che nulla toglie, anzi amplifica, l’umana concretezza del vissuto. Il jazz viene dunque a rappresentare la forza che amalgama, il dinamismo trasversale, ma anche l’altisonanza che rompe, assieme ai frequenti intermezzi, l’invisibile coltre della quarta parete, per poi interrompersi e condurre il nostro sguardo allo strumento rotto, al suo manico ligneo che, stretto tra le mani dell’attore diviene “scettro di un re pezzente”.

Giorgia Leuratti

120 CHILI DI JAZZ
Regia e interpretazione César Brie.
Arti e Spettacolo.
Nobelperlapace, 5 Marzo 2017.